L'incontro di MMA

Un racconto intenso e realistico sull’attesa, la tensione e la forza di un incontro di MMA. Dallo spogliatoio al centro dell’ottagono, ogni istante viene narrato con dettagli vivi fino alla vittoria finale, in una cronaca immersiva che cattura il cuore dello sport da combattimento.

STORIE E RACCONTI

Mr. Red Drakar

9/5/20253 min read

Nello spogliatoio l’aria era densa di tensione. L’odore pungente di sudore, resina per i guantoni e disinfettante ospedaliero si mescolava in un silenzio rotto solo dal respiro pesante dei due contendenti. Sul lato destro, un atleta asciugava la fronte con un asciugamano, mentre un preparatore gli stringeva con cura le fasce attorno ai polsi. Il nastro adesivo scivolava rapido, il suono secco dello strappo riempiva la stanza, scandendo i secondi come un metronomo.

Il suo avversario, a pochi metri di distanza, fissava un punto indefinito sul pavimento. Ogni muscolo del corpo vibrava di concentrazione, ogni fibra in tensione come una corda pronta a spezzarsi. Il riscaldamento era già finito: ombre di pugni, rapidi affondi di gambe, qualche colpo al sacco appeso in un angolo. Ora restava solo l’attesa. L’attesa prima del rumore, prima delle luci, prima del momento in cui il silenzio del backstage si sarebbe trasformato in un urlo collettivo.

Un funzionario della federazione fece cenno. Era il momento. I due uomini si alzarono quasi contemporaneamente. I passi nudi contro il pavimento gommato risuonavano come tamburi. Lungo il corridoio che portava all’arena, il suono distante della folla cresceva a ogni metro: prima un ronzio, poi un tuono.

Le luci dell’arena abbagliarono i contendenti. La gabbia ottagonale si stagliava al centro come un’arena antica, custodita da mura d’acciaio. Il pubblico gridava, applaudiva, scandiva nomi. I due entrarono uno dopo l’altro, sfiorando la maglia metallica con le dita, come se ne volessero assaggiare la consistenza prima del duello.

La campanella suonò. Il primo round ebbe inizio.

Il combattimento partì con un rapido scambio di jab. Uno dei due, più alto e longilineo, cercava di sfruttare il vantaggio di allungo. Le braccia scattavano come fruste, precise e veloci, cercando di misurare la distanza. L’altro, più compatto, con spalle larghe e centro di gravità basso, si muoveva in avanti con piccoli passi rapidi, piegando il busto per evitare i colpi e cercando di ridurre lo spazio.

Le prime scariche di calci furono un assaggio: colpi alti bloccati dalle braccia, calci bassi che fendevano la pelle con un rumore secco, come un bastone contro il legno. La folla reagiva a ogni colpo andato a segno, un mormorio collettivo che si accendeva in un boato.

Il tempo correva veloce. A metà round il più compatto riuscì a chiudere la distanza: un clinch poderoso, ginocchiate serrate al corpo, i muscoli del collo che si tendevano in un duello di forze invisibili. L’altro cercava di liberarsi con colpi corti, gomitate rapide, mentre i piedi si intrecciavano in una lotta silenziosa per mantenere l’equilibrio. La campanella interruppe la pressione. I due tornarono all’angolo, sudore e fiato corto, i petti che salivano e scendevano come mantici incandescenti.

Il secondo round iniziò più feroce. L’atleta più alto, punzecchiato dall’aggressività del rivale, aumentò il ritmo. I pugni arrivavano in combinazioni fulminee, seguiti da calci alti che fendevano l’aria. Il più basso resisteva, stringeva i denti, alzava la guardia e assorbiva i colpi come uno scudo umano. Poi, all’improvviso, un’apertura: un diretto sinistro colpì la tempia. Il colpo non fu devastante, ma sufficiente a far vacillare l’avversario.

Il boato della folla esplose. Il compatto balzò in avanti, caricando di colpi ravvicinati, spingendo l’altro contro la rete. Le braccia si muovevano in raffiche, una tempesta di pugni e gomitate, ma l’altro resistette. Il gong arrivò come una salvezza, lasciando i due esausti e grondanti di sudore.

Il terzo round era l’ultimo. Gli occhi dei contendenti raccontavano la stessa storia: dolore, fatica, ma nessuna intenzione di cedere. Il centro dell’ottagono divenne il campo di battaglia finale. Ogni colpo vibrava come un tuono. Pugni che spostavano l’aria, calci che fischiavano contro le ossa, schiene che si piegavano sotto il peso della lotta.

Poi, la svolta. In un istante che sembrò sospeso, il compatto riuscì a portare a terra l’avversario. Un sollevamento improvviso, uno schianto contro il tappeto. Il rumore sordo del corpo che cadeva risuonò più forte di qualsiasi grido. Sul tappeto, la lotta divenne ancora più viscerale: spalle che si torcevano, mani che cercavano leve, gambe che si serravano come trappole.

Il pubblico era in piedi. Ogni movimento sulla tela bianca era un racconto di forza e resistenza. Poi, un braccio intrappolato, una leva improvvisa. Il più alto tentò di resistere, i denti serrati, il viso contorto, ma la torsione era inevitabile. La mano batté tre volte sul tappeto.

La campanella decretò la fine.

Il vincitore si rialzò lentamente, le braccia tese al cielo, il petto che pulsava sotto i riflettori. Gli occhi non tradivano gioia sfrenata, ma sollievo: la battaglia era finita, e lui era rimasto in piedi.

L’altro, seduto a terra, respirava a fatica ma con dignità. Nessuna parola, nessun rancore. Solo il silenzio rispettoso di due guerrieri che avevano dato tutto, davanti a una folla che continuava ad applaudire.

E nell’arena, in quell’istante sospeso, non c’erano vincitori o vinti, ma solo la memoria viva di una lotta che sarebbe rimasta impressa.