Amarant Park
Racconto horror breve su un luna park abbandonato, in rovina e con misteri dietro.
HORROR
Mr. Red Drakar
4/15/20252 min read


Nascosto tra le colline nebbiose del Nordovest, il parco Amaranta venne costruito negli anni ’70 da un imprenditore eccentrico, Elai Amaranta, sognando di creare un luogo dove “la gioia non finisse mai”. Il parco fu un successo per appena tre estati, poi iniziarono a circolare voci strane: bambini spariti, risate udite dopo la chiusura, figure che si aleggiavano tra i padiglioni spenti. L’estate del ’79 fu diversa dalle altre: il cancello fu sbarrato per sempre. Nessun comunicato ufficiale, nessuna vendita, nessun recupero. Ruggine e silenzio furono i nuovi visitatori del parco.
Quarant’anni dopo, un fotografo freelance di nome Ruben Liris decise di documentare l’area. Noto per il suo blog su luoghi dimenticati si mise alla ricerca di qualcosa di più potente, più di risalto. Amarant Park attirò subito l’attenzione: un luogo abbandonato, dimenticato persino dalle mappe ufficiali.
Ruben partì in una mattina di novembre, con cielo basso e pioggia intermittente. Lasciò l’auto a un chilometro di distanza e proseguì a piedi lungo un sentiero invaso dalla vegetazione. Il cancello del parco, piegato dal tempo. Oltre si stendeva un paesaggio immobile: la ruota panoramica scheletrica, la casa delle illusioni invasa dai rampicanti, e al centro, il vecchio carosello, con i cavalli di legno in parte divorati dalle muffe.
Nonostante la desolazione, qualcos’altro iquietò Ruben. Un silenzio innaturale, dettato dall’abbandono del posto, ma vi era qualcosa di più tetro, più misterioso. Si aggirò per ore, scattando fotografie tra le bancarelle sfondate e le maschere cadute a terra, ma ogni foto risultava disturbata, sbagliata. Sfocature casuali, macchie di luce nelle zone buie, inquadrature lievemente diverse.
Quando raggiunse il carosello, la luce cominciò a calare. Il cielo, si incupì ulteriormente. La macchina fotografica iniziò a dare segni di malfunzionamento.
Ruben cominciò a sentire un ronzio, uno strano suono che divenne lentamente musica. Una melodia infantile, stonata, proveniente dalla giostra. I cavalli iniziarono a muoversi, millimetro dopo millimetro, come se il tempo avesse ripreso a scorrere solo per loro.
Fu allora che notò le sagome. Non erano visibili in modo netto, ma c’erano. In piedi, tra le attrazioni. Sagome piccole, immobili. Alcune accovacciate, altre con la testa piegata di lato. I loro sguardi puntavano la giostra, spenti, apatici, in attesa. Una presenza in particolare, più vicina delle altre, rivelava occhi troppo grandi, le braccia troppo lunghe, il corpo troppo sottile per essere umano.
Ruben fece per allontanarsi, ma le uscite non conducevano più all’esterno. Qualsiasi strada riportava davanti al carosello. Il luogo si illuminò di una luce innaturale, un bagliore grigiastro che non proiettava ombre. L’aria sapeva di ozono e ferro.
La macchina fotografica scattò una foto da sola.
Il display mostrò un’immagine nitida: Ruben in piedi sulla giostra, in compagnia di decine di bambini sbiaditi, immobili. Nessuno dei soggetti aveva occhi. Solo orbite nere.
Quella fu l’ultima prova della sua presenza. Il suo blog si interruppe. Fu dimenticato anch’egli, perso tra le memorie di un luogo sotterrato dal tempo e dalle numerose storie e teorie sui fatti strani accaduti in tale posto, come se qualcosa del luogo lottasse ancora oggi per rimanere nell’ignoto, sospeso tra il reale e la leggenda metropolitana.


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